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da peacereporter.it
01/02/2011
Cairo, un milione contro il regime
Le voci e le attese di piazza Tahrir, tra i carri armati e la diplomazia internazionale
scritto per noi da
Silvia Mollicchi
dal Cairo
"Non ho mai visto persone prendersi cura l'una dell'altra in questo modo. Organizzare gruppi di volontari per sorvegliare le case, dirigere il traffico, pulire le strade, stare attenti che nessuno manchi all'appello, che tutti stiano bene". Yassin è rimasto in piazza Tahrir negli ultimi giorni assieme a migliaia di egiziani. "E il numero non accenna a diminuire. Ci sono giovani, anziani, famiglie, persone di tutti i ceti sociali".
Maidan Tahrir, normalmente, nelle ore di punta del traffico ha un aspetto grigio e somiglia ad una nube caotica di smog. Da quando la gente l'ha occupata, quattro giorni fa, ha assunto una bellezza sorprendente. Entrando in piazza dal lato di Shar'a Tal'ath Harb, una delle strade principali di Downtown, il colpo d'occhio è incredibile. Quella che ha invaso il centro del Cairo, sotto l'occhio attento dell'esercito, è una folla pacifica, quasi festosa. L'obiettivo fondamentale - la caduta del regime Mubarak - non è ancora stato raggiunto, ma si respira un'aria di ottimismo. Gruppi di persone che cantano, ballano, suonano tamburi.
Mentre camminiamo, ad un certo punto, entrano due grandi striscioni colorati freschi di stampa. Lo slogan è semplice ed è sempre lo stesso: chiedono la fine dell'era Mubarak, un punto su cui la folla di Tahrir non sembra intenzionata a mediare. Un nugolo di gente si raduna attorno a due televisori istallati in piazza e sintonizzati su al-Arabiya. I cori vanno avanti giorno e notte, senza curarsi di un coprifuoco, mai veramente implementato, che ormai va dalle tre del pomeriggio alle otto del mattino. Per la prima volta dopo più di trent'anni, persone comuni si riprendono uno spazio finora proibito e basta una breve passeggiata in mezzo alla folla per percepire un generale senso di liberazione.
"Chi crea problemi qui sono solo i poliziotti in abiti civili rimasti in giro e gli infiltrati del Partito Nazional Democratico (PND)" - racconta Yassin. Secondo molte delle persone con cui parliamo, sono stati loro ad irrompere dentro al Museo Egizioe ad incendiare alcune sedi del PND, tra cui il quartier generale sul lungo Nilo, una colonna di fumo rimasta accesa per circa due giorni, che ha lasciato in piedi uno scheletro annerito di cemento. Strategie banali per alzare il livello di tensione in un braccio di ferro tra regime e manifestanti.
"Sono felice come mai", racconta Azza Matar di Arab Network for Human Rights Information. "Non sappiamo ancora cosa succederà e la manifestazione di domani sarà cruciale per capirlo, ma tutta questa gente in piazza non s'era mai vista".
Ai margini di Tahrir, restano i tank militari a sorvegliare gli accessi e a garantire la sicurezza. Una presenza inquietante che potrebbe incombere anche sui futuri sviluppi della protesta. Le opinioni a riguardo sono confuse e, per un verso o per l'altro, quando si parla di transizione, molti guardano verso un'unica direzione, quella dell'esercito.
Venerdì sera abbiamo visto entrare in piazza Tahrir i carri armati, mentre le forze di polizia si ritiravano a sorvegliare il loro quartier generale, il ministero degli Interni (passato sotto controllo militare anch'esso, dopo gli scontri violenti di sabato notte). Quelli che molti considerano come i due clienti della trentennale amministrazione Mubarak, che il Presidente ha utilizzato più volte l'uno contro l'altro - esercito e polizia - si sono incontrati nel cuore del Cairo, fianco a fianco. L'esercito, da sempre amato e rispettato dalla popolazione per ragioni storiche, è stato salutato da buona parte della folla come una salvezza, mentre il secondo lanciava fumogeni e si ritirava lentamente dalle strade. Quasi subito è arrivata una dichiarazione apparentemente rassicurante dell'esercito: i militari non apriranno il fuoco sui manifestanti.
Parlando con le persone per strada, incontriamo molti nostalgici: il loro rispetto per le forze dell'esercito affonda le radici nelle campagne del 1956 e 1973 o negli episodi di protesta del 1977, quando i militari garantirono sicurezza per le strade. Altri ci dicono chiaramente che i carri armati non sono lì per difendere la gente in piazza e gli uomini in divisa non hanno alcun interesse ad ascoltare le sue istanze. Quando abbiamo fatto visita al Partito al-Tagammu, Hani al-Hussein, ha attaccato a parlare immediatamente della presenza dell'esercito in città: "Una presenza utile, ma solo per il momento e in preparazione di un governo civile. L'ultima cosa che vogliamo ora è una dittatura militare".
"Sembra che l'esercito sia diviso: i militari per strada stanno con noi, ma i generali al comando sono gli stessi della generazione di Mubarak e sono favorevoli a mediare pur di mantenere il loro potere", commenta Azza Matar. "Io non mi fido dell'esercito - racconta Yassin. Finché non dichiarano apertamente da che parte stanno, non c'è modo di capire che direzione prenderà la protesta. I ragazzi sui tank, se li guardi, sono come noi. Quando gli chiediamo se sparerebbero sulla folla nel caso gli ordini cambiassero rispondono di no, ma è difficile fare qualunque previsione. Finché l'esercito non prende posizione restiamo sospesi e la situazione rimane indecifrabile".
In questi giorni, le notizie attraversano la città e la piazza seguite da conferme, smentite e riconferme nel giro di pochi minuti, e più che analisi ci si ritrova a formulare pure congetture. Ieri sera però, mentre cenavamo in strada con poeti improvvisati che raccontano la storia di questi giorni, arriva la notizia ufficiali: l'esercito non muoverà un dito contro i manifestanti. Esplode la gioia. Un altro passo avanti.
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