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Negli ultimi giorni siamo stati inondati da fiumi di parole sulla scomparsa di Miriam Makeba, fiumi a cui sarebbe inutile aggiungere altro. Vorrei solo provare a raccontare l’emozione di chi l’amava da anni come personaggio e come artista, e quella sera era lì, a vivere un’emozione che non può essere descritta, ma solo condivisa.
Confesso che sono tra quelli che avevano storto il naso nel vedere il nome della grande Miriam accostato a quello di Maria Nazionale, ma poi, riflettendo sullo spirito di quella serata, aveva apprezzato quello che al di là di ogni retorica e strumentalizzazione era voler condividere un momento di festa contro la paura e l’indifferenza. Paura di un luogo dove i diritti sono umiliati, dove si vive da schiavi e ci si ricorda della dignità di fronte alle stragi.
Paura, retorica e strumentalizzazione che si avvertivano nell’aria avvicinandosi al luogo del concerto, nei visi degli immigrati a cui ci si accostava per chiedere un’indicazione, in quelli dei militari in assetto da guerra che l’indicazione la davano, magari sbagliata, senza che gliela si chiedesse. Nelle parole dei politici che blaterano di stato e antistato e nella presenza sul palco di logorroici presentatori televisivi con il loro carico di banalità di cui non si sarebbe sentita la mancanza.
Ma finalmente l’esibizione di Miriam inizia ed eccola, a zittire tutto con la sua classe immensa e con il suo carisma senza pari. Lei, che paura e schiavitù conosce bene, lei che forza e dignità ne ha per tutti. Si potrebbe provare a descriverne la voce, le movenze, il sorriso, lo sguardo, ma non avrebbe nessun senso. Ciò che cattura è il suo potere di trasmettere passione a chi le sta di fronte, quel qualcosa che ti fa guardare verso lo sconosciuto che ti sta vicino e scambiare un sorriso senza motivo, solo perché si sente di provare lo stesso indescrivibile sentimento.
Settantasei anni e tanti malanni, giunge su una sedia a rotelle, nelle pause va a sedere, ma quando riprende a cantare la voce e la grinta sono da ragazza, e di quelle toste.
Circa mezz’ora di spettacolo, la conclusione con la celebre Pata pata, canzone non di impegno sociale ma pura iniezione di allegria, di energia positiva. Miriam la canta con la solita grinta e ironia, poi si volta e si avvia dietro le quinte. Il seguito lo hanno descritto ampiamente i giornali.
Sotto il palco restiamo con la gioia di quello che abbiamo vissuto e l’amarezza di quello che sta succedendo, mentre speravamo ancora in un bis. La notizia arriva il mattino dopo e ci sconvolge tutti.
Non resta che provare a trarre una lezione da ciò che abbiamo vissuto, involontari protagonisti di una serata quasi storica. Addio Mama Africa, che hai vissuto l’Apartheid e sei venuta a morire tra caporalato e pizzo. Se una speranza esiste, sta molto di più nella tua voce che nelle ridicole tute mimetiche che circondavano quel palco.
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