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di Mamadou Ly
I mondiali di calcio – quelli del 2006 ormai volgono verso il termine – fanno parte di quegli eventi che catalizzano l’attenzione di centinaia di milioni di persone e si impongono all’attenzione di tutte e di tutti per un mese.
Per molti sono l’occasione di consapevolezza concentrata e più o meno pensata di vivere in un mondo notevolmente più vasto del proprio, di avere passioni ed interessi condivisi con milioni di altri individui, molto lontani e diversi da sé ma che ugualmente gioiscono o soffrono per le performance della “propria” squadra o le prodezze di tale o tal’altro campione.
Lo spettro del tifo è molto ampio e le sue origini possono essere molteplici; in qualche caso può nascere per il bel gioco che ha espresso e/o esprime una squadra – un esempio a caso: il Brasile – o per la simpatia nei confronti di una delle infinite realtà bistrattate del pianeta, a maggior ragione quando mette in difficoltà o si impone alle “grandi”.
Ma, con buona pace del motto de Coubertiano “l’importante è partecipare” e fare spettacolo, intorno ai mondiali e al calcio girano e si mescolano interessi e dinamiche che congiurano a stemperare fin quasi a soffocare le passioni più positive che animano chi gioca e chi segue. Gli scandali che scuotono il calcio italiano e di tante altre federazioni senza mai risparmiare i vertici della Fifa, il gioco e il tifo violento sono alcuni esempi immediati e pesanti, che sono ben lungi dall’esaurire il quadro.
In questa sede mi sembra possa essere utile riflettere su quanto la percezione, più o meno riflettuta, del mondo e dell’umanità che suscitano i mondiali o scadenze come le olimpiadi, si intreccia con motivi che spingono a sentirsi fortemente, a volte visceralmente, legati ad una parte, ad una delle tante bandiere che sventolano.
Il nazionalismo e le infinite sollecitazioni particolaristiche che confluiscono nel tifo hanno scaturigine “extracalcistiche” ma in esso e nei mondiali come sono concepiti e si svolgono si manifestano e trovano motivi deleteri di esaltazione. Dietro tutte le bandiere e alcune in particolare si nascondono vicende e significati dalle implicazioni poderose nella vita di milioni di donne e uomini, che non scompaiono quando vengono sventolate in uno stadio, anzi. E’ perciò non solo comprensibile ma sacrosanta l’indignazione di fronte al giocatore del Ghana che festeggia la vittoria sventolando la bandiera di Israele e che spiega il proprio gesto con il buon trattamento che a lui riservano i dirigenti e i tifosi del club israeliano in cui gioca: è l’egoismo e l’ansia di piacere e di farsi “voler bene” che spinge al servilismo e a chiudere gli occhi su quanto succede intorno a sé. In questo caso si tratta della scelta di ignorare le sofferenze che lo stato di Israle infligge al popolo palestinese da oltre sessant’anni, perdendo l’occasione di imparare dal suo coraggio oltre che di schierarsi con la sua rivoluzione.
E’ solo un esempio, pesante, di quanto si nasconde dietro le bandiere e gli inni che ossessivamente accompagnano ogni partita, lontano anni luce dalla prospettiva interetnica. E’ un motivo per reprimere la passione per il calcio e i lampi di genio che di tanto in tanto può regalare una partita – per la verità sempre più raramente – e per ignorare i mondiali? Assolutamente no! Ma si tratta di un motivo in più, proprio ripartendo da questa passione per valorizzarla, per sentire e pensare l’esigenza di ripensare il calcio stesso, perché anch’esso possa contribuire all’incontro, la conoscenza, il riconoscimento reciproco tra persone molto diverse per origini, cultura, ecc. ma che per il pallone rotondo o per qualunque altro sport hanno passione e rispetto.
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