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dall'inviato Ciro Fusco
RAS JEDIR - Nell'inferno dei profughi in fuga dalla guerra civile libica c'é un girone di poveri fra i poveri: è il girone dei lavoratori bengalesi, abbandonati dai datori di lavoro e derubati di quel poco che portavano con loro da predoni di ogni genere, che sono riusciti a entrate solo ieri nel confine tunisino a Ras Jedir, allo stremo dopo giorni di purgatorio nella "terra di nessuno" fra le due frontiere. E per i quali, anche adesso una pozzanghera fangosa è fonte preziosa di acqua. In tremila sono accampati sotto gli alberi e ripari improvvisati in una campo sterrato all'interno della linea di confine tunisina. Vengono dal Bangladesh, il più povero fra i Paesi del Subcontinente indiano, e sono giunti qui da vari punti della Libia dopo che le fabbriche e i cantieri dove lavoravano sono stati chiusi, senza alcun preavviso, dai loro padroni coreani, cinesi e maltesi, che hanno lasciato il campo alle prime avvisaglie di guerra civile, lasciando loro e le loro famiglie, senza stipendio, senza nulla. A Ras Jedir, dove sono ancora accampati migliaia di rifugiati, il recinto dei bengalesi è l'ultimo girone di questo inferno e molti di loro, prima di arrivarci, hanno trascorso anche più giorni tra le due frontiere, nella "no man's land". Per lavarsi e per lavare gli indumenti usano l'acqua sporca di una grande pozzanghera al centro di questo lazzaretto. "Non c'é rimasto più niente - racconta uno dei più giovani - quello che avevamo ci è stato derubato lungo la strada da bande armate con lunghi coltelli e dagli stessi tassisti che ci avevano caricato per portarci qui alla frontiera". Una situazione insostenibile, testimoniata anche da un odore nauseabondo che infesta l'area, e carica di rischi: come avverte un medico della Mezzaluna Rossa tunisina, il pericolo è quello delle malattie, soprattutto che si diffondano focolai di tubercolosi. Nel campo arriva un camion con gli aiuti dei volontari tunisini intorno al quale, una volta fermo, si formano lunghe file. Oggi si mangia pane, datteri e si beve acqua. E per ogni bottiglia che i volontari tunisini porgono dal camion ci sono almeno venti mani pronte ad afferrarla. Quando il carico finisce gli ultimi della fila sono ancora lontani decine di metri. A loro non arriva nulla. Al centro del campo sventola la bandiera del Bangladesh, la loro bandiera verde con al centro un cerchio rosso, e anche un telo dove è disegnata una nave: quella - dicono i profughi - con cui sperano di ritornare a casa. Intanto oggi sulla linea di confine sono pochi i passaggi di profughi che arrivano in Tunisia attraversando l'ormai deserta terra di nessuno. Ad accoglierli, nel tentativo di risollevarne un po' il morale, c'é l'accompagnamento di musica ad alto volume che esce dagli altoparlanti di due pick-up della polizia libica, la stessa musica che da giorni ammutolisce le radio oltre confine. Al di qua della frontiera continua il lavoro di smistamento dei profughi, che rimangono comunque per giorni accampati prima di riuscire a salire su uno degli autobus verso altre destinazioni, nella speranza di trovare sistemazione. L'aria è carica di tensione e quà e là si avverte qualche accenno di rissa, dovuta più alla stanchezza e alla tensione che a veri sentimenti di intolleranza. Ma c'é chi trova anche la forza di improvvisare un partitella di calcio, a piedi nudi e con un pallone ricavato da stracci tenuti insieme da nastro adesivo. In questa scena dimessa spicca la tuta sportiva con cui gioca uno degli egiziani: è la divisa della nazionale di calcio italiana.
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