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Il grande tacchino
Cronaca di ieri. L'Associazione nazionale magistrati apre il suo congresso e denuncia il tentativo di ridisegnare i rapporti tra politica e magistratura «alterando le attuali divisioni tra poteri dello Stato». Con un gesto automatico il premier impugna il telecomando e mette in funzione Daniele Capezzone che accusa l'Anm di essere "un partito". Interviene Renato Schifani per assicurare che i progetti di riforma non hanno mai messo in discussione l'autonomia dei giudici. E qua, ai tempi belli, il cerchio di sarebbe chiuso. Ma ecco il Fato. In quelle stesse ore si viene a sapere che la procura di Roma ha messo sotto inchiesta altissimi dirigenti dell'Enav e anche la moglie del presidente di Finmeccanica. Il premier - rendendo vano il sacrificio dei suoi corifei - deflagra in una dichiarazione sbalorditiva («Mi auguro che queste indagini portino a nulla... Sarebbe suicida se un Paese procedesse contro chi costituisce la forza del Paese») che è la precisa conferma delle preoccupazioni dei magistrati. C'è qualcosa di grande nel ballista che sbugiarda se stesso.
Luigi Cancrini, su queste pagine, per spiegare alcuni dei comportamenti del premier, li ha attribuiti a una forma di narcisismo esasperato, un disturbo della personalità che può essere superato attraverso un adeguato sostegno e l'aiuto delle persone più vicine. Ma ecco di nuovo la sfortuna. I collaboratori più stretti di Silvio Berlusconi, anziché dirgli di tornare coi piedi per terra, lo rafforzano nelle sua manie. È ancora cronaca di ieri. Nella seduta del Consiglio dei ministri, Franco Frattini, responsabile della nostra politica estera, denuncia l'esistenza di «strategie dirette a colpire l'immagine dell'Italia». E a dimostrazione dell'assunto cita: 1) «l'attacco a Finmeccanica»; 2) «la diffusione ripetuta di immagini sui rifiuti di Napoli o sui crolli di Pompei»; 3) «l'annunciata pubblicazione di rapporti riservati concernenti la politica degli Stati Uniti, con possibili ripercussioni negative anche per l'Italia». Più tardi - forse resosi conto dell'enormità dell'ipotesi - precisa di non aver parlato di "complotto". Come se la locuzione «strategia internazionale» fosse qualcosa di meno. Sì, c'è qualcosa di grandioso anche nella smentita che si autosmentisce.
E meno male che il giorno ha solo 24 ore. Perché ieri, sul far della sera, arriva una notizia curiosa. Aol, che è il principale provider internet degli Stati Uniti d'America, in occasione del Giorno del Ringraziamento, ha proposto agli utenti un gioco: scegliere il tacchino (cioè lo sciocco) al quale non vorrebbero somigliare. Il risultato è stato che accanto a una serie di bizzarri personaggi noti solo negli Usa (a parte il reverendo Jones, quello che voleva bruciare il Corano) gli americani hanno scelto Silvio Berlusconi. Il nostro premier si è meritato ben quattro tacchini, che sono le stelle Michelin della dabbenaggine e del ridicolo. E ancora non sono arrivati i documenti di Wikileaks. Per fortuna manca poco alla cena di Natale.
Gli incubi e il sogno
Mettiamo da parte e conserviamo questo numero de l'Unità. Ci sarà utile nella vecchiaia quando racconteremo ai nipoti questi giorni di follia e loro ci guarderanno con gli occhi a palla come noi da piccoli guardavamo i nonni quando ci raccontavano le storie delle streghe e dei fantasmi. Il trascorrere del tempo semplifica i fatti, li ischeletrisce, e dunque racconteremo la favola nera di un miliardario sessualmente incontinente che venne quasi annientato dalla passione per una ladruncola marocchina e misteriosamente trovò sostegno in un partito politico che aveva fatto fortuna proprio chiedendo l'arresto dei ladri e l'espulsione dei marocchini. Ed ebbe anche la solidarietà di un suo vecchio amico fedele, l'aveva nominato senatore, che aveva collaborato con un'organizzazione criminale potentissima, Cosa Nostra, con la quale lo stesso miliardario aveva avuto rapporti all'inizio della sua carriera. Poi aggiungeremo che la nipote di Benito Mussolini, sì quel dittatore caduto rovinosamente un secolo fa, litigò con un leader politico che un tempo era stato un acceso fan del nonno ed alleato del miliardario, e sfogò la sua ira contro una ex soubrette che, per volere del miliardario, era diventata ministro. E che la situazione divenne alquanto confusa quando l'ex soubrette annunciò che si sarebbe dimessa dal governo perché la nipote di Mussolini l'aveva sorpresa a chiacchierare con un altro ex fan del nonno che si chiamava Italo Bocchino. Ecco, a quel punto i nipotini smetteranno di ascoltarci, chiameranno il medico, e sarà allora che il numero de l'Unità ci sarà utile. «È tutto vero! È tutto vero!» potremo gridare sventolando questa copia ormai ingiallita. Poi, come accade ai vecchi quando i ricordi sono troppo dolorosi, scoppieremo in lacrime. E lasceremo cadere il giornale per terra.
A quel punto il più curioso e perspicace tra i nostri nipotini lo raccoglierà, comincerà a sfogliarlo e tirerà un sospiro di sollievo: tutto vero, nonno non è uscito di testa. Ma poveretto, che schifo di giovinezza... O forse no?
Il nipotino continua a sfogliare sempre più incuriosito. Il nonno è ancora vivo, e dunque quel paese di matti è tornato alla normalità entro l'arco della durata della vita umana. Forse nemmeno allora era tutto da buttare. Toh, c'era un partito che sosteneva delle cose sensate, le propagandava parlando con la gente ed eleggeva i suoi dirigenti con elezioni aperte a tutti. Ed esistevano gruppi, associazioni, individui che non si arrendevano e protestavano contro quel governo che toglieva ai poveri, agli handicappati le risorse per sopravvivere. E c'erano decine di migliaia di persone capaci di mobilitarsi in poche ore per difendere la democrazia. O l'onore di uno scrittore coraggioso che, minacciato di morte dalla mafia, in quei giorni era stato infangato dai giornali del miliardario incontinente. Come si chiamava quel giovane scrittore? Roberto Saviano. Curioso - si domanda il nipotino - forse è un omonimo di quell'altro vecchio, anche se un po' più giovane del nonno, che oggi è il capo dello Stato?
Ps. I bei sogni sono il migliore antidoto contro gli incubi.
(Filo rosso del 19 novembre 2010)
Il Caimano e il caos
È confuso. Combattuto tra il desiderio di rovesciare il tavolo e l'obbligo di non contraddire almeno l'apparenza delle regole. Convoca conferenze stampa e le disdice, annuncia videomessaggi e tace. Alterna dichiarazioni e minacce rodomontiche ad astuzie da prima Repubblica. Non appena i finiani lasceranno il governo, utilizzerà i posti liberi come merce di scambio per acquisire qualche voto. Qualche altro spera di raccattarlo con l'operazione di compravendita dei parlamentari, ripresa a pieno ritmo in questi giorni.
L'obiettivo principale è restare in sella. Ma il Caimano ha capito che è sempre più difficile. Ci vorrebbero capacità di mediazione che non possiede. E chissà quante volte avrà maledetto la sua dissennata gestione del rapporto con Fini. Così lavora affannosamente alla principale delle subordinate: andare subito alle elezioni restando primo ministro: fuori da palazzo Chigi c'è il palazzo di giustizia.
La lettera che ieri ha inviato ai presidenti della Camera e del Senato non solo è il gesto di un uomo disperato ma è anche la pubblica confessione di un progetto, una "operazione caos". Silvio Berlusconi, in presenza di una mozione di sfiducia alla Camera dei deputati, scrive ai presidenti dei due rami del Parlamento per indicare il suo percorso preferito: prima al Senato, e poi alla Camera. No, non è un omaggio ai parlamentari più anziani, ma il tentativo di precostituire un argomento da brandire come una clava dopo le dimissioni. Questo: siccome si è dimostrato che al Senato esiste una maggioranza a me favorevole, è impensabile che si possa fare un altro governo. E dunque il capo dello Stato non stia a perdere tempo affidando mandati esplorativi.
Semplice ed efficace. E spendibile bene nei telegiornali dei vari Minzolini pubblici e privati. Magari corroborandolo con un'adunata oceanica e - perché no? - facendosi sfuggire dal sen qualche frasetta come quella che gli è scappata a Seul: «Se faranno il governo tecnico gli scateneremo contro la guerra civile». E quindi, da premier, lanciarsi nella campagna elettorale più feroce del dopoguerra. Vincere ed evitare il processo. Le analogie col film di Moretti sono davvero spaventose.
Fragili creature
Ci siamo ingannati. Pensavamo di avere a che fare con due rudi machi padani e si trattava invece di fragili damigelle. Ci scusiamo e facciamo la riverenza. Con l'unica preghiera di stare a sentire le ragioni del fatale inganno e gli argomenti a nostra discolpa.
Si risente, Il Giornale, per il fatto che lunedì abbiamo scritto che non sapevamo se l'idea della "pubblicità progresso" sugli incidenti sul lavoro fosse venuta ad Alessandro Sallusti durante una passeggiata nell'Ade, o a Vittorio Feltri mentre era impegnato nel suo hobby di sputare sui cadaveri, o a Berlusconi in persona. Si tratta, protesta Il Giornale, di «offese», per giunta pretestuose perché non ci sarebbe alcuna relazione tra la premessa e le conclusioni.
Colpiti, e anche commossi, confessiamo in primo luogo che nell'accostare Sallusti al regno degli inferi siamo stati guidati non tanto dalla leggiadria del suo sguardo quanto da un certo disappunto per aver visto definire il nostro direttore, sulla prima pagina de Il Giornale, proprio quel giorno, «un chihuahua». E anche, la sera stessa ma in tv, «una gallina». Non immaginandone ancora la fragile indole, abbiamo ritenuto possibile ironizzare su Sallusti. Ma ora, consapevoli e contriti, ritiriamo tutto. Sallusti non passeggia nell'Ade, ma volteggia tra i cherubini. Quanto all'hobby di Feltri, non troviamo, e ci duole, alcun argomento per scusarci. Su quel suo hobby diversi mesi fa scrivemmo, non smentiti, un articolo intitolato appunto "Feltri che sputa sui morti". Prendeva spunto da un editoriale nel quale, dopo aver al solito intinto il pennino nell'acquasanta, aveva scritto: «Il minimo che potevano aspettarsi quelli della Freedom Flotilla era una raffica di mitra». Insomma, sintetizzammo quel modo di considerare la vita con la locuzione «sputare sui morti» (venti in una volta sola, nell'occasione). Anche perché Feltri non era nuovo a queste levità. Ci ricordammo come Libero, di cui all'epoca era il direttore, aveva salutato la morte del giornalista Enzo Baldoni in Iraq: «Un pirlacchione spericolato». L'articolo era firmato da Renato Farina, l'Agente Betulla, radiato dall'ordine dei giornalisti, ma promosso parlamentare del Pdl.
Ed ecco il terzo nostro sfregio alle due anime illibate. Ieri, nella nostra copertina, abbiamo pubblicato una loro fotografia accompagnata dal titolo «I mantenuti». Sciagurata contumelia. Fondata, d'altra parte, su circostanze marginali. Che importanza ha che un organo di stampa, formalmente di proprietà del fratello del premier, sopravviva grazie agli assegni periodicamente staccati dal premier medesimo? No, il fatto che il giorno prima avesse sbattuto in prima pagina la foto del nostro direttore accompagnata da un titolo insultante non è una giustificazione sufficiente. Offendere una donna è un modo di salvaguardare una tradizione ancora radicata in tante delle famiglie che fanno ricco questo paese.
Feltri e Sallusti attaccano, insultano, oltraggiano. Ma alla prima reazione di pari livello piangono, si lamentano. I feroci fustigatori dei costumi dei nemici del capo assumono il contegno di madonnine trafitte.
Hanno mutuato in tutto e per tutto la tecnica del loro datore di lavoro. È stata studiata e analizzata, ne abbiamo già parlato. Il nome è difficile: schismogenesi. Il concetto è semplice: si lancia un attacco con lo scopo di provocare una reazione. Poi, quando la reazione arriva, si nega di aver voluto attaccare.
Berlusconi di solito nega sostenendo di essere stato "frainteso". Quand'è inchiodato da una registrazione o da un filmato può contare sulle censure amiche dei Minzolini. E, se proprio non ha vie d'uscita, afferma di "aver scherzato" e dice che i comunisti sono tristi. Feltri e Sallusti - e anche per questo ci sentiamo in colpa - non godono di appoggi così potenti. E, soprattutto, svolgono un altro mestiere. Scrivono. Lasciano traccia documentale delle loro azioni. Hanno un handicap gravissimo nella schismogenesi: scripta manent. E le tardive minimizzazioni, le tardive scuse, non bastano. Resta solo la prescrizione della memoria. Ma questa, benché inteneriti, non siamo nelle condizioni di concederla. Siamo andati a leggere le motivazioni con le quali l'ordine dei giornalisti di Milano ha sospeso Feltri per sei mesi per il caso Boffo: «Un comportamento privo di lealtà e buona fede professionale che ha gravemente nociuto alla dignità e all'onore della persona coinvolta e ha leso gravemente il rapporto di fiducia tra stampa e lettori.
(Filo rosso del 14 ottobre 2010)Faccia di bronzo
Non sappiamo chi abbia avuto l'idea. Alessandro Sallusti durante una delle sue passeggiate nell'Ade? Vittorio Feltri mentre era impegnato nel suo prediletto hobby di sputare sui cadaveri? O è stato addirittura Lui, il Padrone in persona? Può darsi. Un uomo di Stato che davanti alla morte di quattro soldati non si prende la briga di tornare nel suo Paese, ma prosegue la spensierata vacanza con l'amico Putin e le di lui amiche, è perfettamente in grado di concepire un'idea simile. Ecco, facciamo una bella campagna di "pubblicità progresso" contro gli incidenti sul lavoro. Ma, ops, abbiamo tagliato i fondi per la sicurezza, aggravato i rischi... che fare? Semplice. Responsabilizziamo i lavoratori: la sicurezza devono pretenderla «se si vogliono bene». Ergo: chi cade da un'impalcatura, chi muore asfissiato in una cisterna o schiacciato da un trattore ha un problema di autostima.
Leggete cosa dice il parlamentare del Pd Antonio Boccuzzi, l'unico sopravvissuto alla strage della Thyssen di Torino. A quanto pare i suoi compagni di lavoro «si volevano molto bene». E avevano l'unica colpa di dover lavorare per vivere. Poi andate a leggere l'articolo sulle politiche del governo in materia di sicurezza sul lavoro e saranno chiare le ragioni di tanta indignazione. Quello che - ma solo a prima vista - può apparire misterioso è perché il governo, che pure conosce alla perfezione le proprie politiche, abbia potuto concepire una campagna pubblicitaria così grottesca e offensiva, un insulto non solo alla sensibilità dei familiari delle vittime, ma anche all'intelligenza.
Solo a prima vista. Perché, a pensarci bene, la tecnica di diffondere le balle e continuare a ripeterle in modo martellante ignorando qualunque smentita, anche la più precisa e documentata, è esattamente l'idea berlusconiana del fare politica. Non le buone ragioni, non i buoni argomenti ma - col supporto di un sistema mediatico per buona parte asservito - la reiterazione degli slogan. Ancora pochi giorni fa Berlusconi - benché smentito più volte da tutti gli esperti e da tutte le organizzazioni umanitarie - ripeteva la miserabile bugia della «fine dell'immigrazione clandestina». E, d'altra parte, continua a magnificare gli interventi governativi all'Aquila e la «risoluzione» del problema dei rifiuti a Napoli. È il trasferimento al dibattito pubblico delle tecniche di persuasione utilizzate nelle campagne pubblicitarie. Nulla di nuovo, né di sorprendente. Nel nostro regredire, siamo passati dal Medioevo all'età del bronzo. Della faccia di bronzo.
Non a caso proprio ieri - molto allarmato per i sondaggi che gli comunicano un progressivo calo di popolarità - se l'è presa col Pdl. E ha svelato la banalissima ragione della rottura con Gianfranco Fini: «Se negli ultimi mesi la nostra parte politica ha dato, a volte, un'immagine che non ha entusiasmato, lo si deve ad alcuni errori del partito, non del governo». Dove gli "errori" corrispondono alle pretese di democrazia interna che hanno interrotto gli spot. Pericolo che invece non esiste in un governo dove l'immagine pubblica di ciascuno dei ministri è nelle mani del capo. Esattamente come la sopravvivenza dell'indebitatissimo Giornale e dei suoi "segugi" rabbiosi.
Il presunto attentato
C'è un "non detto" nelle cronache sul presunto attentato a Maurizio Belpietro. È appunto quel participio passato che nel linguaggio giornalistico, anche davanti a racconti meno confusi di quello del caposcorta del direttore di Libero, viene utilizzato con larghezza. E, di solito, con una funzione puramente indicativa: per chiarire che si sta parlando di un evento del quale non c'è certezza.
La ricostruzione del presunto attentato presente numerose stranezze. Una pistola che s'inceppa, un killer maldestro che si nasconde in una scala condominiale e poi, come fosse diventato invisibile, si dissolve nel centro di Milano. Un agguato che somiglia moltissimo, nelle sue modalità uniche, a un altro attentato compiuto diciassette anni fa contro l'allora giudice Gerardo D'Ambrosio e "sventato" dallo stesso agente. La lista delle coincidenze sorprendenti è lunga e chiunque può farsene un'idea leggendo le cronache.
Ma qua vogliamo ragionare attorno ai motivi che fino a ora hanno impedito ai media di definire questo quadro attraverso quell'aggettivo verbale: presunto. E non vogliamo farlo "contro" Belpietro. Anzi, diciamo subito che se emergesse che il caposcorta si è inventato tutto, riterremmo il direttore di Libero la prima vittima dell'inganno. E non faremmo alcuna ironia su quanto ha detto e scritto in questi giorni. Non abbiamo alcun dubbio sulla sua buona fede e probabilmente al suo posto non avremmo reagito in un modo molto diverso.
Sia anche chiaro che condividiamo la decisione di rafforzare la scorta di Belpietro. Dopo il presunto attentato, la sua visibilità come "obiettivo" è cresciuta enormemente ed è questa una condizione che può ispirare gli scalmanati e i folli. Sia chiaro, infine, che nel caso in cui si scoprisse che non c'è stato alcun attentato, non diremmo che Belpietro aveva inutilmente un servizio di scorta. Riteniamo, infatti, che le decisioni degli organismi preposti alla sicurezza - decisioni che riguardano la vita delle persone - possano essere messe in discussione solo se evidentemente strampalate. E questo non è certo il caso della decisione di assegnare la scorta a una personalità esposta come Belpietro.
Questa lunga puntualizzazione individua un aspetto del problema. Infatti non ci saremmo sentiti in dovere di farla se l'evento presunto fosse stato un altro. Se la presunta vittima non fosse stata un nostro avversario politico. E se non avessimo ben chiari i pericoli ai quali noi stessi ci esponiamo nell'usare quel peraltro ovvio participio. Siamo consapevoli delle possibili strumentalizzazioni. Conosciamo le capacità mistificatorie dei nostri avversari e saremmo in grado - se avessimo lo spazio e la voglia - di fare una lista dei possibili "trattamenti". Ma assumiamo volentieri questo rischio perché quel "non detto" ci allarma. Quando l'autocensura si estende al vocabolario vuol dire che qualcosa davvero non funziona. E poi abbiamo la coscienza tranquilla. Perché mai abbiamo detto, né diremo mai, che la vittima di un atto di violenza «se l'è cercata» per aver esercitato il sacrosanto diritto alla libera manifestazione del pensiero con toni e argomenti aspri, provocatori o anche scorretti. Pensiamo di vivere in un paese civile, popolato da persone con la testa sul collo, capaci di capire che alla violenza verbale non si deve mai opporre la violenza fisica. Non diremo mai che un malato di mente che lancia un corpo contundente contro un personaggio pubblico è stato "istigato" da chi ha criticato quel personaggio pubblico. Nè, se un malato di mente tentasse di assassinare un magistrato, diremmo che, istigato dal presidente del Consiglio, aveva il proposito di eliminare un gangster.
Cosa c'è di più assurdo dell'attribuire razionalità e senso politico al gesto di un folle? Eppure in questo Paese è accaduto e accade. Accade, sia detto per inciso, anche nella vicenda di Belpietro. Perché se anche si accertasse che il racconto del caposcorta è totalmente sincero, saremmo in presenza del gesto di un individuo isolato (oltre che dotato di un'agilità straordinaria e di camaleontiche capacità mimetiche) e non di un'azione terroristica.
Ovvietà assolute. Ma per quale ragione non vengono dette? Proviamo a discuterne, farà bene a tutti. Da parte nostra crediamo di aver individuato due cause. La prima è la paura di un apparato mediatico che si è dimostrato capace di trasformare qualunque castroneria in senso comune. Mettere in discussione il fatto (il presunto attentato) vuol dire esporsi all'accusa di volerne coprire "gli ispiratori". E, dunque, di esserne in qualche modo complici. C'è poi un'altra causa che rimanda alla storia degli anni Settanta e alla sottovalutazione che fu fatta (in particolare dalla sinistra) delle prime azioni delle Brigate rosse. L'incubo che il terrorismo politico possa davvero risorgere è ancora presente. E questo (non solo nella vicenda di Belpietro, ma in generale) ottunde il senso critico, determina un'automatica enfatizzazione di qualunque episodio richiami il terrorismo. Una causa "buona", quest'ultima. "Buona" perché si fonda su un sentimento condiviso, su ferite atroci dell'intera comunità nazionale. Chissà che quella memoria non ci consenta di ragionare serenamente, in attesa della verità sul fatto (se mai la verità sarà accertata) attorno al presunto attentato di Milano.
Appesi a un filo
Distratti come siamo dalle evoluzioni del cerino - che, ormai quasi consumato, ieri è stato rimesso nelle mani del premier - rischiamo di perdere di vista il cuore del drammatico discorso pronunciato ieri dal presidente della Camera. Gianfranco Fini ha detto a Silvio Berlusconi: «Fermati». Ferma i tuoi killer prima che sia troppo tardi. Fermati perché stai mettendo a rischio la democrazia.
E ha anche descritto nei dettagli l'azione fino ad ora svolta dai killer: arruolamento di "faccendieri professionisti" («A proposito, chi paga le spese?», ha opportunamente domandato), produzione di calunnie da usare come manganelli, minacce a mezzo stampa («Il metodo Boffo...»), utilizzo dei mass media per distruggere l'avversario politico. Tutto questo attribuito dal presidente dell'assemblea legislativa di un Paese dell'occidente democratico, il nostro Paese, al capo del governo in carica.
Se qualcuno, sedici anni fa, al tempo della "discesa in campo" di Silvio Berlusconi, avesse raccontato in un romanzo quello che ieri tutti hanno potuto vedere in tv, sarebbe stato preso per un matto catastrofista. In effetti nemmeno i più pessimisti avevano ipotizzato uno scenario simile. E quelli che ci si erano avvicinati non erano comunque riusciti a immaginare che si sarebbe prodotto alla fine della prima decade del nuovo millennio dopo un lunghissimo e sistematico avvelenamento delle coscienze, dopo il sovvertimento del comune senso etico e la trasformazione in valori dei peggiori difetti del carattere nazionale.
Gianfranco Fini - ecco un altro evento inimmaginabile fino a qualche anno fa - ieri suscitava un sentimento strano: rabbia, rispetto e anche, diciamolo, tenerezza. Un sentimento prepolitico, che prescinde dalle posizioni assunte negli ultimi mesi, dal suo distacco dal Pdl. Il sentimento che si prova nei confronti di un uomo che forse ha fatto qualche leggerezza, che molto probabilmente ha avuto la sfiga di incrociare il cognato sbagliato, e che deve mettere sul tavolo la propria carica istituzionale per difendersi da un soggetto plurinquisito che ha subordinato la vita del governo alla propria salvezza giudiziaria.
Precisamente alla garanzia assoluta di riuscire a evitare un processo nel quale è accusato di aver corrotto un testimone, l'avvocato David Mills, perché tacesse non su una società offshore e un appartamento a Montecarlo, ma su 64 società offshore nelle quali transitarono i fondi - mille miliardi di lire - utilizzati per le tangenti destinate a oliare i meccanismi legislativi e politici che gli hanno consentito di controllare il sistema televisivo nazionale. E dunque di creare la situazione di cui il presidente della Camera oggi è vittima.
Faceva tenerezza Fini perché, mentre denunciava i suoi killer, ribadiva - per ragioni di pura tattica politica - la sua fedeltà al governo. E dunque all'impegno di salvare il mandante del tentato omicidio perpetrato ai suoi danni col "caso Montecarlo". A fine giornata restavano un quadro politico massacrato e un governo appeso a un filo. È possibile che Berlusconi adesso fermi i killer. Ma Gianfranco Fini sa bene che sono sempre là, con le armi cariche.
Esecutori e mandanti
Il ministro Maroni non ha detto niente di nuovo. Colpisce però la nonchalance con cui ha avanzato l'ipotesi dell'esecuzione sommaria e ha riconosciuto che il nostro governo, nell'affidare ai libici il servizio di polizia marittima, non solo non ha chiesto alcuna garanzia di rispetto delle leggi del mare e dei diritti umani, ma accettato pienamente i loro metodi. È una forma indiretta di introduzione della pena di morte. Dove un civile e democratico paese dell'occidente svolge il ruolo di mandante, una dittatura africana quello dell'esecutore.
Ma siccome non ci priviamo di nulla, è successo che la svagata ferocia dell'ipotesi ministeriale sia stata poi smentita dal comandante del nostro peschereccio. Il quale ha detto ciò che, a dire il vero, il buonsenso già suggeriva: che i libici sapevano benissimo di aver a che fare con un peschereccio italiano e non con un boat people. E che le raffiche di mitra, nelle loro intenzioni, non erano destinate a dei clandestini venuti dal Sahara ma a dei pescatori partiti dalla Sicilia. A bordo della motovedetta pirata c'erano, in qualità di osservatori, dei nostri militari. I quali si trovano oggi nella surreale condizione di testimoni oculari di un tentato omicidio plurimo compiuto da stranieri ai danni di loro connazionali. Una storia che avrebbe fatto gola a Le Carré.
Sarebbe invece piaciuta ad Achille Campanile quella suggerita da Franco Frattini. Il ministro-ombra degli Esteri - dopo aver chiarito che il nostro osservatore militare non ha partecipato alla sparatoria, e la notizia ci ha rallegrati - ha aggiunto che il comandante del peschereccio «sapeva di pescare illegalmente». Insomma, se l'è cercata. Attendiamo le scuse della Farnesina al governo di Tripoli.
Il reverendo Giulio
Non altrettanto si può dire per il ministro Tremonti. Non risulta che abbia mai bestemmiato l'Islam, né che abbia sparso orina di maiale nei pressi di qualche moschea. Né si è distinto per speciali manifestazioni di fanatismo, almeno in campo religioso. La sua relazione col reverendo Jones non è nel merito, ma nel metodo. Quello dell'annuncio estemporaneo e irresponsabile. Della frase a effetto pronunciata col solo scopo di far parlare di sè. Tanto, poi, si può sempre dire d'essere stati fraintesi e, mentre lo si dice, si può anche fare l'occhiolino a quelli che invece avevano apprezzato e condiviso.
Si dirà: è esattamente quanto fa il presidente del Consiglio. Ma Berlusconi - a differenza del reverendo Jones e di Tremonti - controlla i mezzi di informazione e quindi, attraverso i suoi dipendenti nel servizio pubblico e privato, governa l'evolversi dei suoi spropositi. Jones e Tremonti, invece, navigano a vista. E rischiano di andare a sbattere. Il reverendo Jones contro Barack Obama, Giulio Tremonti contro la realtà del Paese.
È stato sfortunato il ministro dell'Economia. Un paio di settimane fa, parlando alla festa leghista di Bergamo, aveva detto che la legge sulla sicurezza sul lavoro «è un lusso che non possiamo permetterci». Poi, appagata la platea amica col cinico sproposito, si era premurato di correggere e precisare: non intendeva riferirsi alla grande industria ma a quella «piccola, minima, individuale, caratteristica dell'economia italiana». Ecco, l'esatto identikit dell'impresa dei tre lavoratori che sono morti ieri a Capua. Cos'altro "preciserà" adesso il reverendo Tremonti? Chiederà scusa?
Ma no. Non ne avrà bisogno. Perché se è vero che, al contrario di Berlusconi, non può governare lo sviluppo di una notizia, ha comunque, da parte dei dipendenti del premier, un trattamento di riguardo. Il Tg1 di ieri sera ha parlato dei tre morti di Capua con la rituale contrizione e con la consueta cinica spettacolarizzazione del dolore atroce dei familiari, ma ha del tutto omesso di ricordare il pensiero di Tremonti e non ha citato nemmeno una delle numerose dichiarazioni di esponenti dell'opposizione che ieri l'hanno ripreso. Il servizio è finito lì. Col pianto disperato della figlia di una delle vittime e l'affranto primo piano della conduttrice. Poi è arrivato il servizio su quel pazzo del reverendo Jones.
Decidiamo noi
Quando abbiamo deciso di lanciare la campagna per le primarie nelle circoscrizioni elettorali prevedevamo una risposta positiva. Ma non di queste proporzioni. A partire da lunedì allargheremo e razionalizzeremo le condotte, attrezzeremo il nostro sito in modo da semplificare e rendere più veloce il meccanismo delle adesioni. Non si preoccupino quelli che hanno inviato i loro messaggi e non li hanno visti pubblicati subito: li stiamo liberando tutti e nessuno resterà fuori.
Il direttore nell'editoriale di ieri ha chiarito il senso di questa iniziativa. E le ragioni che ci hanno spinto ad avviarla in modo completamente aperto, senza far seguire al testo dell'appello le firme di autorevoli sostenitori. L'Unità è uno strumento di lavoro politico e culturale a disposizione dei milioni di cittadini dalle storie e dai percorsi diversi che hanno aderito al progetto del Partito democratico con la convinzione di poter costruire, sulle fondamenta delle altre città dove in passato vivevano i democratici italiani, la città futura.
Nel cantiere di questa città c'è di tutto. Ci sono monumenti che il mondo ci invidia, ci sono quartieri residenziali e popolari, abitazioni costruite nell'emergenza e altre pensate ed edificate nei decenni, strade rettilinee e vicoli bui, c'è anche un cimitero dove non tutte le tombe hanno la croce. Quella del fondatore di questo giornale, per esempio. Ci sono sensibilità diverse e storie diverse. Quella comunista, quella cattolica, quella socialista e quella di chi, non riconoscendosi in alcuna delle storie precedenti, ha pensato di riconoscersi nella storia di un partito nuovo.
I milioni di cittadini che hanno partecipato alle primarie degli anni passati rappresentano questo: la confluenza, in un unico luogo, di donne e di uomini provenienti da luoghi diversi, a volte lontani che, però, negli anni, sono stati illuminati dallo stesso sole. Un sole, lo diciamo a rischio di apparire retorici, "costituzionale". Perché i vecchi e i nuovi abitanti della città che stiamo costruendo riconoscono tutti che il monumento più importante - uno dei monumenti che il mondo civile ci invidia - è quello che fu costruito in Italia dai padri costituenti subito dopo la guerra, quando le macerie erano molte, molte di più di quelle che oggi ci circondano.
Che pure non sono poche. Fuor di metafora: sconfitte elettorali cocenti, occasioni drammaticamente perdute, la sottovalutazione del conflitto di interessi, l'incapacità di far seguire alla fondazione di un nuovo partito la nascita di una nuova classe dirigente che rappresentasse in modo adeguato il partito del futuro, cioè quella parte - che se non altro per ragioni anagrafiche è fatalmente destinato a diventare maggioritaria - dei militanti e degli elettori che non si riconoscono completamente in alcuna delle tradizioni precedenti.
Non è facile la vita nel cantiere della città dei democratici. Ogni tanto qualcuno perde la testa. Altri restano con le mani in mano e guardano la luna rimpiangendo un passato irripetibile. Ci sono quelli che entrano ed escono in relazione all'orario della distribuzione dei pasti. E quelli che entrano negli edifici di pregio e studiano come sottrarre gli arredi perché già pensano a piccole aree incontaminate dove costruire case comode dalle quali irridere la fatica di chi invece, come noi, pensa che si debba stare qua. Perché solo qua, ripulendo le macerie ed edificando nuove impalcature, c'è lo spazio per una città abbastanza grande per tutti. Solo qua, nella storia di questo paese, della sua sinistra, delle sue eccellenze e delle sue meschinità.
Ci conforta sapere che i dirigenti del Partito democratico, ai quali l'appello con tutte le firme sarà consegnato (e saranno consegne periodiche, perché di firme contiamo di raccoglierne moltissime) apprezzino la nostra iniziativa. Dal segretario Pier Luigi Bersani a Valter Veltroni. Siamo convinti che, tra le responsabilità di una classe dirigente, una delle più grandi sia preparare e favorire il proprio ricambio. Non si può dire: chi c'è si faccia avanti. Bisogna creare le condizioni perché questo avvenga. La nostra iniziativa è un modo per aiutare i dirigenti di oggi a individuare quelli di domani.
L'impressionante risposta che voi lettori avete dato ci conferma in un'altra convinzione: che la disaffezione, il disimpegno, l'astensionismo, il farsi da parte, non siano il frutto marcio di una società in crisi, ma precise responsabilità della politica. Se la gente non partecipa è perché non trova i luoghi. Quando il luogo esiste, la gente partecipa. Se ne ha la prova tutte le volte che si apre un luogo d'incontro. Ieri è avvenuto a Torino con la festa del Partito democratico.
Le primarie nelle circoscrizioni non solo consentiranno di rimediare al vulnus alla democrazia prodotto dalla porcata di Roberto Calderoni, ma saranno anche un momento per dare a ciascuno dei cittadini che in questi anni hanno creduto alla città futura la possibilità di controllare il lavoro degli ingegneri e degli architetti. Non solo portare mattoni, ma decidere l'architettura della casa comune.
Fermare i razzisti
Sembra una bella favola di sinistra eppure è successo davvero. E val la pena di raccontarlo. Dunque, il presidente francese Nicolas Sarkozy, preoccupato dai sondaggi in picchiata, decide di tirare su il gradimento popolare prendendo un po' di rom ed espellendoli. Un'applicazione automatica della sperimentata tecnica del governare con la paura. Non a caso il nostro ministro dell'Interno, uno specialista in materia, si affretta a rivendicare la primogenitura dell'idea: Sarkozy, dice, non ha fatto altro che copiarci. Ha ragione. Noi, anzi, siamo molto più avanti: non respingiamo i rom in Romania ma i rifugiati politici in Libia. Non temiamo nulla noi, nemmeno la morte. Quella altrui in special modo.
Fatto sta che gli osservatori stavano ancora ragionando attorno all'astuta mossa del marito di Carla Bruni, e a contestarla si era levata solo la voce della Chiesa, quando nella redazione di Libération sono arrivati i risultati di uno dei periodici sondaggi d'opinione. Ed ecco la sorpresa: Sarkozy è sempre giù. Anche un po' più di prima. La paura, questa volta, non ha funzionato. Anzi. A quanto pare ha infastidito. Perché in tanti si sono accorti che la trovata dell'espulsione dei rom serviva a nascondere altri problemi. La disoccupazione, per esempio. O la corruzione. Proprio come i servizi del Tg1 sui coccodrilli in Florida.
Certo, è un piccolo segnale. Certo, la Francia - come dice Nadia Urbinati - «è un paese civicamente più attivo» e «dispone di maggiori energie critiche». Inoltre è un paese dove la libertà di stampa è piena e non "parziale" come, secondo la classifica 2010 di Freedom house, da noi. Insomma, per chi sta in Francia è più semplice esercitare il ruolo di controllo e di critica del potere, che poi è l'essenza di ogni democrazia moderna. Ma è anche vero che là i problemi dell'integrazione sono stati avvertiti con una drammaticità a noi ancora sconosciuta. Non osiamo pensare cosa sarebbe successo se a Roma o a Milano fosse avvenuto negli anni passati qualcosa di simile alla rivolta delle banlieue. Forse il mitico "radicamento leghista nel territorio" si sarebbe esteso fino alla Calabria. E i sindaci e gli assessori, anche di centrosinistra, che non si vergognano d'essere chiamati "sceriffi", avrebbero raggiunto una densità che nemmeno nel Texas.
Per noi è più difficile. Dobbiamo combattere a mani nude contro un apparato propagandistico formidabile che, in più, può contare sul sostegno di "terzisti" che riescono a essere "equidistanti" anche davanti a conflitti che toccano i principi fondamentali. E a far finta di niente davanti a a un governo che si definisce liberale e intrattiene rapporti di cordialità e di amicizia con i dittatori più sanguinari del pianeta. Gli stessi, tra l'altro, che ci forniscono la carne umana per i respingimenti.
Sì, è complicato. Ma godiamoci questo vento pulito che arriva dalla Francia. E portiamolo con noi in questo benedetto porta a porta. Andiamo a dire le cose giuste. E ripetiamole ostinatamente senza farci scoraggiare dai luoghi comuni che i governanti della paura hanno saputo diffondere anche tra la nostra gente.
(Filo rosso del 25 agosto 2010)